Se la ricerca filosofica sulle fonti di acquisizione della conoscenza, a mio parere il più interessante campo d’indagine nella nostra disciplina, vuole raggiungere quelle caratteristiche di descrittività e normatività che qualificano la maturità di un campo di ricerca, non può, in alcun modo e a qualsiasi livello di spiegazione, prescindere da un dialogo multidisciplinare con le differenti ramificazioni dell’indagine scientifica; in particolare il contributo che le scienze biologico – evolutive possono apportare a questa impresa potrebbe, come l’ultimo mezzo secolo testimonia, rivelarsi determinante.
Partendo dall’idea che la conoscenza sia un fenomeno (o “tipo” per dirla con Quine) naturale abbiamo cercato di gettare un po’ di luce sullo sviluppo e il funzionamento degli apparati di acquisizione di conoscenza come, ad esempio, i sistemi sensoriali e le strutture cognitive che, pur prive di un’immediata localizzazione fisica, si manifestano nella loro efficacia; successivamente abbiamo provato a chiarire in quale relazione tali strutture si pongano con i costrutti “culturali” a tutti gli effetti. In particolare abbiamo concentrato la nostra attenzione sulle costruzioni apparentemente più astratte e sofisticate, la matematica e la logica che, in modo arrogante, a tutt’oggi ci ostiniamo a considerare esclusivo appannaggio della nostra specie.
Esattamente come la nostra costituzione fisica reca in sé tracce della storia biologica che, in modo del tutto accidentale (e in definitiva fortuito), ha portato Homo sapiens ad essere, tra le altre cose, anche un agente epistemico in grado di riflettere su questa storia, è del tutto plausibile che frammenti delle innumerevoli interazioni tra gli organismi susseguitisi nel corso del tempo e gli ambienti in cui essi si siano evoluti, abbiano lasciato la loro impronta nelle nostre capacità cognitive. In due parole: se l’evoluzione è una storia di acquisizione di nuova conoscenza allora i sistemi, sia fisici che cognitivi, che permettano l’acquisizione di tale conoscenza rappresenteranno un vantaggio intrinseco, incentivato selettivamente nel corso del processo evolutivo; vantaggio che potremo riscontrare in tutti quegli organismi che condividano un rapporto di parentela (omologia) o si trovino ad affrontare pressioni ambientali convergenti (analogia). Tali apparati, il cui funzionamento è generalizzabile in una sorta di economizzazione ampliativa delle possibilità, prendono il nome di Euristiche e costituiscono il nucleo centrale della nostra argomentazione.
Se, come ormai sappiamo perfettamente, il processo evolutivo non può comportarsi come un Demiurgo, ma piuttosto deve adattarsi al ruolo di bricoleur, allora anche i ‘pezzi cognitivi’ a sua disposizione non saranno infiniti. Sarà dunque all’interno di questo “gioco combinatorio” che spinge astute “riutilizzazioni” negli spazi creati da vincoli preesistenti che potremo sperare di individuare pezzi importanti di questa storia così affascinante.
Prendiamo,per esempio, in considerazione i problemi correlati al “semplice” atto del vedere: ci accorgeremo che la realtà che si trova attorno a noi, il mondo di tutti i giorni, è un tremendo guazzabuglio di dati sensoriali. Informazioni che devono essere decodificate in ingresso si affastellano su altre che, codificate, devono essere “inviate” all’esterno. Il nostro sistema nervoso è costretto a filtrare gran parte di quest’informazione per poterci offrire qualcosa che ci possa essere utile per prendere decisioni, attuare azioni ed effettuare predizioni sull’andamento delle cose nel futuro. Il risultato di questa integrazione sofisticata e, per certi versi, ancora non completamente chiara, è che siamo in grado di eseguire azioni estremamente complesse, che vanno dal prendere palle da tennis al volo al memorizzare un itinerario in campagna sino, con buona probabilità, all’ escogitare nuove forme di descrizione della realtà.